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London Calling, un anno dopo

È passato un anno da quando siamo arrivati, impauriti e felici, qui a Londra.
Ricordo molto bene quel sabato, la casa vuota, gli ultimi problemi, l’aereo che si alza in volo e la tristezza che mi assale, l’arrivo in ritardo, l’infinita gentilezza del nostro ospite che ci offre dell’ottimo vino rosso, il primo giro per Clapham High Street, la nostra prima stanza, la nostra prima cena, l’entusiasmo di essere lì.
Non è stato solo un viaggio fisico, ma proprio un viaggio nello spazio-tempo.

La casa di Milano mi manca ancora da morire, su questo non c’è dubbio, e sarà così ancora a lungo; ho nella mente e nel cuore troppe case che non ci sono più per non saperlo bene.
Che mi mancassero famiglia e amici era nel conto, e tutto sommato la tecnologia aiuta almeno un pochino a sentirsi un po’ meno lontani.
C’è anche da dire che almeno la famiglia negli ultimi 15 anni è sempre stata a 300 chilometri, quindi alla fine ahimè non è cambiato moltissimo.
Mi mancano tante piccole e grandi cose che no, non avevo dato per scontate, anzi, erano le cose che apprezzavo di più del fatto di vivere a Milano, e di cui non c’è verso di non sentire la mancanza.

Una cosa è piuttosto chiara riguardo a questa città: se vuoi una grande e bella casa, nel senso italiano del termine, la paghi. Tanto, direi anche troppo.
Avete presente i prezzi di Milano? Triplicateli.
Gli inglesi* non sembrano esattamente le persone più aperte del mondo, ma è anche vero che finora non mi sono sforzata un granché di conoscerli.
Tendenzialmente sembra invece che gli stranieri siano più disponibili, anche quelli che sono qui da molti anni.
Al netto della questione della lingua, non mi è mai capitato prima di fare buone amicizie in una nuova città se non dopo almeno tre anni, se non di più, e non mi aspetto nulla di diverso ora, anzi suppongo che sarà ancora più difficile, considerata anche la mia età. Ricordo bene i difficili primi anni a Milano, e ce ne sono voluti almeno dieci per cominciare a sentirmi davvero a casa.

Il mio inglese è arrivato al livello sufficiente per capire e farsi capire, e naturalmente lavorare, anche se il vocabolario e la pronuncia ancora sono scarsi.
Mi sono data due anni per arrivare a un livello accettabile, quindi ho ancora un anno per migliorare e nel caso pensare di fare un corso.
Mi è capitato di pensare in inglese, sognare in inglese, parlare da sola (o con la gatta**) in inglese. Credo che sia inevitabile, e comunque un buon segno.

Il bilancio generale è sostanzialmente positivo, e si può riassumere nella frase: meglio con un lavoro stabile in un paese civile che precaria in un paese incivile.
Non è ancora quello che avevo sperato, e per quello c’è ancora molto da fare: ma dopo un anno così intenso sono davvero stanca e stressata come non mai, e quindi per ora sto cercando di colpevolizzarmi meno e di darmi un po’ di tempo per metabolizzare tutti i cambiamenti e per riposarmi.
In programma c’è già un corso per la fine di marzo, pagato dall’azienda, di una settimana.
Passato l’inverno, si ricomincerà a cercare di fare qualcosa di meglio.

*inglesi, esclusi scozzesi e gallesi. L’inglese tipo chiede: are you alright?, e di solito non ascolta la risposta. Uno scozzese può chiederti: how are you doing?
Sottile, ma la differenza c’è.

**mi sembra giusto per una volta mettere anche sul blog una foto di questa petulante e strana creatura che viene a scroccare il cibo miagolando a non finire. In tutto il suo peloso splendore

gatta petula

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Discussione

  1. "Ho nella mente e nel cuore troppe case che non ci sono più:" verissimo e scritto in modo toccante. Riposati/evi quando puoi/potete e complimenti per la gatta :).

  2. È da tempo che voglio rispondere a questo tuo post.
    Ma non mi viene in mente niente di più significativo del mio esprimere la mia gioia nel sentire che un percorso verso una certa “realizzazione personalè è stato intrapreso. Nel capire che il vostro legame affettivo è una roccia. Dirvi “I care for you” e che mi auguro che prima o poi ci si reincontri di persona.

    Basta?

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