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Storia di C.

C’era una volta un’azienda nuova fiammante.
Questa azienda aveva miracolosamente riunito tante persone che, per un aspetto o per un altro, avevano tutte una cosa in comune: l’entusiasmo per il lavoro che facevano e la capacità di farlo davvero bene. Avevano, usando una brutta espressione molto in voga allora, tutte un alto profilo.
Era bello lavorare con loro, racconta C., perché ogni giorno c’era qualcosa da imparare e da scoprire insieme a queste persone, in un clima accogliente.
Questa azienda, come tante aziende allora, aveva come scopo principale quello di realizzare siti web. C’erano i grafici, gli sviluppatori, i sistemisti, gli esperti di comunicazione, gli psicologi.
E poi c’erano i capi progetto, i commerciali. Allora non si chiamavano così, ma il loro compito era quello. Naturalmente c’erano anche dei soci fondatori e un consiglio di amministrazione.
Insomma, una struttura armoniosa che non lasciava scoperta nessuna funzione.

Ma. “C’è sempre un ma in tutte le storie: altrimenti non sarebbero storie,” mi fa notare C.
All’inizio, come è giusto che sia, il lavoro andava bene, e le prospettive erano incoraggianti. Poi piano piano cominciarono i primi problemi.
“Cosa ci vuole a fare 4 paginette HTML?”, continua C. “Questa era l’idea che, a ben guardare, avevano per primi i nostri capi progetto. Il cliente ha sempre ragione, e non importa se fa proposte completamente irrealizzabili oppure dannose persino per i suoi scopi: l’importante è portare a casa il contratto e non perderlo”. Queste persone, che nella maggior parte dei casi avevano una preparazione informatica pari o inferiore “a quella del gatto che c’è sul davanzale della finestra del vicino”, svendevano regolarmente il lavoro dei loro colleghi, sottovalutandolo. Arrivavano persino a pensare che, se venivano fatte delle obiezioni a determinati cambiamenti o proposte, era soltanto perché, in fondo, chi faceva obiezioni non aveva voglia di lavorare.
“E i clienti, che saranno anche stati impreparati, ma che percepivano questa volontà di portare a casa il contratto a tutti i costi, se ne approfittavano, creando problemi a non finire.”
Ed è così che iniziarono ad esserci tante persone insoddisfatte.
“Non ho mai capito nulla di relazioni commerciali,” racconta C. “Eppure ho percepito da subito che non poteva essere questo l’atteggiamento corretto nei confronti dei clienti.”
Tentò di fare quello che poteva, eppure sembrava che nessuno ascoltasse.
La situazione peggiorava di giorno in giorno, ed erano iniziate le prime grosse discussioni.
“Avrei voluto dirgli: andate a vendere pere cotte, e soprattutto se fossi in voi la farei un po’ più corta. Ma poi ho sempre avuto il dubbio che sarebbero stati capaci di svendere anche le pere.”
Fu allora che C. decise di andarsene. Le sembrava sempre di più che il lavoro che stava facendo non avesse nessun senso, che si era perso di vista che cosa si stava facendo, e che la situazione era diventata insostenibile.
I suoi colleghi allora la presero un po’ per pazza; non comprendevano quali fossero le sue obiezioni.
Soltanto un’altra persona se ne andò, più o meno nello stesso periodo, con ragioni diverse dalle sue.
C. era giovane e ingenua pensava che fosse corretto esprimere il suo pensiero, e perciò ne parlò con uno dei soci fondatori dell’azienda. Non ebbe mezzi termini: gli disse chiaramente che se avessero continuato così, sarebbero arrivati al fallimento. Ed espose le sue ragioni.
Naturalmente nessuno la ascoltò. Non era un commerciale, non aveva mai gestito un’azienda, e per di più era anche donna. Le sue parole non ebbero nessun credito.

Non successe subito dopo; passò qualche mese. Ma allora la fuga iniziò ad essere più consistente: molte delle persone che c’erano se ne stavano andando, erano anche cominciate le cause dei clienti nei confronti dell’azienda. E l’azienda stava affondando.
Un paio di anni di agonia, e l’azienda fallì.
E probabilmente nessuno si ricorda di C., e delle sue parole.
“Da allora continuo a vedere la storia che si ripete, si ripete, si ripete, all’infinito. Con le varianti più inimmaginabili, e con l’impressione che più passa il tempo più le cose peggiorino.”

Eppure C. non ha perso il vizio di dire quello che pensa: sta ancora imparando.

*Questa storia, a differenza di quasi tutto quello che è stato scritto finora su questo blog, ha due peculiarità: è stata scritta prima su carta, e rispetta la corretta grafia italiana (le parentesi tonde anziché quadre, le lettere accentate al posto degli apostrofi, e l’uso delle maiuscole dove necessario).

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Discussione

  1. Sottoscrivo, ed estendo l'esperienza anche all'industria più "convenzionale" dove sto vivendo la STESSA, IDENTICA esperienza, compreso il desiderio di andarmene, anche se per ora è solo in potenza e non in atto (principlamente per una ancora non trovata alternativa).

  2. eviva il Deda redivivo! in effetti la storia di C. è comune anche a chi non lavora su Internet; sembra solo che la differenza sia che in questo caso certi problemi si facciano sentire di più,e in tempi più brevi. c'è molta impreparazione, e spesso anche di persone che credono di essere preparate: una cosa che ha dei risvolti catastrofici.

  3. Mi sono mal espresso io. Non soltanto la storia è scritta secondo grafia e svolgimento ineccepibili per la lingua italiana, ma anche il contenuto della stessa ha un sapore tipicamente italiano. Sottendendo quell'atteggiamento attendista ed approssimativo, spesso al limite del lassismo che caratterizza un certo modo di intendere la professionalità.
    Ma probabilmente ora deliro io...

  4. serenase: tranquillo, è che sono stordita io, devi capirmi :D sempre più spesso mi capita di pensare che mi piacerebbe sapere davvero, toccando con mano, come si lavora all'estero. tanto per fare un paragone che abbia un suo fondamento.

  5. benvenuto Dario, e grazie :)
    beh questa storia in particolare è vera. l'ho voluta raccontare perché anche a me sembrava che fosse qualcosa di comune a tanti ;)

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